Che bello quando si può pensare di combattere, in modo del tutto naturale e green e sostenibile, la piaga degli incendi estivi.
Uno degli ultimi esempi viene dalla Galizia: i valorosi Galego de monte, i cavallini protagonisti delle Rapa da Bestas per intenderci, vengono chiamati dai loro allevatori “bombeiros voluntairos“.
Perché, come tutti i cavalli e gli altri animali allevati bradi o semi-bradi, svolgono con entusiasmo il compito di contenere l’esubero vegetale di erbe, prati, arbusti e sottoboschi assortiti.
E’ uno dei tanti, preziosi aspetti positivi di questa modalità di allevamento: la cura del territorio, la valorizzazione anche economica dei terreni marginali.
Che, per inciso, fanno parte delle famigerate ‘aree interne’ del nostro Paese: sì, proprio quelle che non hanno nessuna intenzione di arrendersi ‘per decreto‘ al declino descritto nel Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne (PSNAI) del Governo, che prevede per molti territori uno “spopolamento irreversibile“.
E se ci fate caso ce ne possiamo accorgere anche noi di persona perché un territorio ‘pascolato‘ è sempre più bello da vedere, anche dal punto di vista estetico, di uno abbandonato al proprio destino.
Oltre che più sicuro in caso di incendi, perché ‘pulito’ e anche più ricco di biodiversità, come si sa nella pratica ma anche grazie a precisi studi mirati.
Problemino: gli animali che pascolano, che siano cavalli o vacche od ovini, vanno gestiti. Occorre seguirli dal punto di vista sanitario, della sicurezza, sopperire agli incidenti e tenerli lontani da strade e vie di comunicazione.

Di questo, ovviamente se ne devono occupare gli allevatori: e sin qui tutti d’accordo.
Le difficoltà cominciano quando si prende l’argomento dall’altro capo, al termine della filiera allevatoriale: perché cavalli, bovini e ovini bradi e semi-bradi sono per la stragrande maggioranza allevati per la produzione di carne.
Non in modo esclusivo, certo: gli allevatori per primi sono molto più contenti di vendere per vita.
Ma solo una percentuale dei soggetti equini autoctoni italiani (molto variabile a seconda della razza) trova sbocco sul mercato ‘del lavoro’.
Solo per limitarci alle nostre razze più coinvolte: oggi Haflinger, Murgesi, Caitpr, Bardigiani, cavalli del Catria, Franches-Montagnes e via dicendo.
Ma serenamente anche Anglo-Arabi di Sardegna, per non parlare delle razze asinine.
Tutti animali che ai nostri giorni non esisterebebro più se non ci fosse stato lo sbocco commerciale della produzione per carne che facesse sopravvivere, con queste razze, anche chi le allevava.

Anglo-Arabi di Sardegna vicino a Tanca Regia, foto di Maria Cristina Magri
Eppure è proprio lì che comincia la colpevolizzazione dell’allevatore regolare, il ‘cattivo’ che ‘ammazza gli animali per mangiarli’ (o farli mangiare a noi, per essere più precisi).
E sempre da lì partono le campagne social di ‘sensibilizzazione’ sull’argomento: vietiamo la macellazione degli equini, i cavalli non si possono mangiare.
E allora perché le vacche, e i maiali e le pecore sì?
Non sono animali meno intelligenti o affettuosi e capaci di interagire con noi dei cavalli, se ce li teniamo accanto.
L’unica differenza comincia lì, dal tenerceli accanto o meno: è quello che cambia il loro destino, ma non la loro essenza.
E’ un problema con cui l’uomo si è sempre confrontato, non è una sensibilità moderna: per riuscire a trovare un equilibrio si sono sempre trattati con un certo distacco quelli da carne (ecco perché spesso non davano nemmeno loro un nome).
E parlando con chi alleva animali da carne si riconosce una costante: si cerca di farli vivere il meglio possibile sino all’ultimo, e vivere brado è un bel vivere per qualsiasi animale.
Rimpianto diffuso: doverli sottoporre allo stress del viaggio verso l’impianto di macellazione, una operazione che per ragioni di sanità pubblica si è preferito accorpare in un numero minore di stabilimenti operativi.
Quando le aziende potevano farlo in loco praticamente l’animale non se ne accorgeva, e non entrava nemmeno nel circolo vizioso di attesa e conseguentre consapevolezza dei grossi impianti.
Ma qui dovevamo parlare degli incendi boschivi, e dei vantaggi dell’allevamento brado per prevenirli: verissimi e sacrosanti, in Galizia come in Puglia, in Emilia come in Abruzzo, Marche e Molise – per tacer dell’Appennino ligure e le Alpi.
Vogliamo essere veramente naturali?
Facciamolo, fino in fondo però: in Natura l’obiettivo finale è la sopravvivenza della specie, non del singolo individuo.
E’ il patrimonio genetico che importa: quindi in Natura se un certo numero di individui viene sacrificato perché sopravviva tutta la razza, il bilancio è da considerare positivo.
Il disastro naturale accade quando la razza scompare, e quel patrimonio genetico si dissolve: che, per inciso, è quello che succede quando in un insieme di animali non si può fare selezione – naturale o artificiale che sia.
Riassumendo violentemente: se vogliamo aiutare l’ambiente in modo veramente naturale, l’allevamento brado o semi-brado è indispensabile.
E l’allevamento esiste se può vendere i propri prodotti: e venderli da sella, da attacchi, insomma da vita è il sogno di tutti, – gli allevatori per primi, lo ripetiamo.
Qui, qui e anche qui alcuni nostri articoli sul tema e qui il sito degli allevatori del cavallo Galego de monte, il ‘bombeiro volontario’ che si sgranocchia anche le gemme di agrifoglio (Ilex galia).

Cavallini della Giara sulla Giara di Gesturi, foto di Maria Cristina Magri